Titolo: Se questo è un uomo
Autore: Primo Levi
Editore: Einaudi
Pagine: 214
Dove acquistarlo: Amazon, Feltrinelli
Buon pomeriggio, miei cari amici lettori!
Oggi vi parlo di un libro di grande potenza, la cui voce si alza forte su quella che era una coltre fittissima di nebbia. Poco, pochissimo infatti si sapeva dei Lager tedeschi in cui vennero sterminati innumerevoli vite.
Una strage atroce e insensata che solleva questioni sull’umanità e la complessità, e fragilità, della mente.
Primo Levi inizia a scrivere questo libro già qualche mese dopo la sua liberazione. Dopo vari rifiuti da parte di alcuni grossi editori, nel 1947 una piccola casa editrice decide di pubblicarne 2500 copie, ma cade presto nell’oblio perché la gente non è ancora pronta a leggere di questi orrori, ancora troppo turbata dalla recente guerra. Sarà nel 1958, quando viene ristampato da Einaudi, che “Se questo è un uomo” conquisterà l’interesse del pubblico, venendo ristampato e tradotto in 6 lingue.
Allora per la prima volta ci siamo accorti che la nostra lingua manca di parole per esprimere questa offesa, la demolizione di un uomo. (…)
Nulla più è nostro: ci hanno tolto gli abiti, le scarpe, anche i capelli; se parleremo, non ci ascolteranno, e se ci ascoltassero, non ci capirebbero.
Ci toglieranno anche il nome: e se vorremo conservarlo, dovremo trovare in noi la forza di farlo, di fare sì che dietro al nome, qualcosa ancora di noi, di noi quali eravamo, rimanga.
Il libro inizia con il racconto della deportazione. Migliaia di uomini vengono strappati dalle loro vite e dalle loro famiglie, considerati «pezzi» come carne da macello.
Non appena arrivano al campo di Auschwitz, gli uomini vengono separati dalle donne e dai bambini, messi in fila e fatti spogliare. Ogni cosa il loro possesso viene presa dalle SS perché tanto «non gli servirà più».
Eseguono gli ordini quasi in uno stato di trance, troppo scioccati e incapaci di comprendere cosa stia succedendo. Già dal viaggio sui vagoni merci era iniziato quel processo di alienazione che permette loro di lasciarsi andare all’assurdità degli eventi, percependo già aleggiare nell’aria il presagio della loro morte. All’interno del campo nessuno ha più un nome. Ad ogni uomo viene tatuato un numero identificativo.
Primo Levi adesso è un prigioniero, l’Häftling 174 517.
Nei primi periodi, quando devono lavorare in coppia, Levi viene spesso messo insieme a un ragazzo chiamato Null Achtzen, un ragazzo che ha ormai perso ogni tipo di sensibilità nei confronti della vita e fa tutto con estrema indifferenza. Del resto, sembra essere lì già abbastanza da essersi scordato il proprio nome e aver perso anche il più piccolo briciolo di speranza e di umanità.
Il campo in cui si trova Levi è un campo di lavoro in cui vengono deportati gli «ebrei economicamente utili», e questo è il motivo per cui ha avuto la possibilità di salvarsi.
Guai a sognare: il momento di coscienza che accompagna il risveglio è la sofferenza più acuta. Ma non ci capita sovente, e non sono lunghi sogni: noi non siamo che bestie stanche.
«Da molto tempo ho smesso di cercare di capire». Così dice Primo Levi. Perché come si può capire una cosa del genere? Cosa c’è, poi, da capire in una simile aberrazione? È tutto incredibilmente FOLLE!
All’inizio della sua permanenza nel campo, Primo sente spesso parlare di selezione, di gas e di crematorio, ma non riesce ancora a comprenderne il senso. O forse preferiva non farlo.
Ogni giorno passa tra lavori faticosissimi e condizioni disumane, e quello che dovrebbe essere l’unico momento di riposo, la notte, purtroppo tale non è. Gli uomini vengono infatti torturati dalle proprie menti, sognando di poter tornare nelle loro case e raccontare ciò che succede lì, dando voce al loro tormento e la loro sofferenza, ma nessuno li ascolta. Si è ormai instillato in loro il terrore di non poter riusce a raccontare a nessuno cosa succede lì dentro, morendo così dimenticati e inascoltati.
Se potessi racchiudere in una immagine tutto il male del nostro tempo, sceglierei questa immagine che mi è familiare: un uomo scarno, dalla fronte china e dalle spalle curve, sul cui volto e nei cui occhi non si possa leggere traccia di pensiero.
Con l’avanzare del libro, Primo ci regala uno sguardo sulla vita degli Häftlinge all’interno del Lager, dall’organizzazione delle baracche a quella sociale. Un quadro dettagliato di come dormivano, mangiavano, lavoravano e si svolgevano le consuete attività. Persino le dinamiche del “commercio” in cui venivano barattate razioni di pane, zuppa, camicie e oggetti vari che potevano rivelarsi utili per la sopravvivenza.
E ovviamente, la più intensa attività: il furto. Dovevano stare sempre tutti sull’attenti e guardarsi le spalle perché, a ogni minima distrazione, gli veniva sfilato da sotto il naso ogni genere di bene.
Capiamo presto come, per poter sopravvivere nel Lager, bisogna ingegnarsi e farsi amici i capi e le persone “influenti”. Ma non c’è un metodo prestabilito per farlo, perciò Primo ci racconta le esperienze e i metodi di alcuni uomini che ha conosciuto e che l’hanno fatta franca.
Quest’anno è passato presto. L’anno scorso a quest’ora io ero un uomo libero: fuori legge ma libero, avevo un nome e una famiglia, possedevo una mente avida e inquieta e un corpo agile e sano. (…)
Avevo una enorme, radicata, sciocca fiducia nella benevolenza del destino, e uccidere e morire mi parevano cose estranee e letterarie.
Nel gennaio 1945, Primo si ammala di scarlattina e viene ricoverato in Ka-Be, l’infermeria del campo.
Dopo pochi giorni arriva la notizia dell’avvicinamento dei russi, così il campo viene evacuato.
In ventimila, i sani, partirono nella notte del 18 gennaio 1945. I malati, circa ottocento, vennero invece lasciati a morire nelle baracche del Ka-Be. Erano spacciati, lo sapevano.
Quella notte stessa il campo fu bombardato, mentre i tedeschi si davano alla fuga. Passarono dieci giorni da allora in un Lager spento, «fuori del mondo e del tempo».
Di quei malati lasciati indietro nessuno si curava, sarebbero comunque morti presto.
Nella baracca in cui si trovava Primo, quella degli Infettivi, erano in undici, troppo deboli e stanchi per curarsi di ciò che gli succedeva intorno. Perciò Primo, insieme ai due francesi arrivati da solo un mese, si mise alla ricerca di una stufa, di cibo, acqua e tutto ciò che potesse servire per assicurare la sopravvivenza di tutti i suoi compagni di baracca.
Da quel 18 gennaio il libro diventa un diario, raccontando giorno per giorno quello che succedeva. Il campo era ormai deserto e ridotto allo sfacelo. Si vedeva distruzione ovunque, anche nei corpi di quelli che erano rimasti e si aggiravano morenti tra le macerie in cerca di qualcosa che gli potesse giovare.
Erano in tanti a morire, ogni giorno, in queste condizioni estreme e la pila di corpi disposta in un angolo cresceva a dismisura.
Il 27 gennaio 1945 i russi arrivano al campo. Di quegli undici uomini della sua baracca ne sopravvissero solo 5.
Distruggere l’uomo è difficile, quasi quanto crearlo:
non è stato agevole, non è stato breve, ma ci siete riusciti, tedeschi.
Eccoci docili sotto i vostri sguardi: da parte nostra nulla più avete a temere: non atti di rivolta, non parole di sfida, neppure uno sguardo giudice.
In questa edizione che ho letto io, alla fine del libro c’è un’appendice che Primo Levi scrisse nel 1976 per un’edizione scolastica per rispondere alle domande che gli venivano frequentemente poste. Proprio per queste domande vi consiglio di leggere questa edizione, perché si possono capire meglio vari aspetti e toccare diverse prospettive tematiche.
Secondo me è un libro che dovrebbero leggere tutti, ma vi avverto, non è una lettura semplice. Per quanto Levi cerchi di raccontare la vita nel campo in maniera distaccata e razionale, non è possibile leggere in maniera distaccata le sue memorie. Troppe atrocità sono state commesse a cuor leggero, e ci si chiede davvero che cosa sia potuto passar per testa a ogni tedesco che preso parte a questo massacro.
Non ci sono davvero parole per descrivere il tumulto di emozioni che ho provato leggendo “Se questo è un uomo“. È una lettura evergreen perché non si può, e non si deve, dimenticare affinché non succedano più simili cose.
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